Dal Mein Kampf al main brand nel mondo.
Storie, non storytelling.
Prima puntata.
«Date alle nazioni sei milioni di corpi impeccabilmente addestrati, tutti impregnati di fanatico patriottismo e animati dal più fervido spirito combattivo. In meno di due anni, se necessario, lo Stato nazionale li trasformerà in un esercito». La propaganda del Mein Kampf considerava lo sport solo un pretesto per diffondere nel popolo disciplina e cameratismo. Per due fratelli della Baviera settentrionale il pensiero del Führer sarebbe invece diventato un assist commerciale formidabile per la loro azienda.
Non c’era giorno alla Gebrüder Dassler che Adi e Rudi Dassler avessero lo stesso punto di vista su come farla funzionare, con il primo occupato a sviluppare i prodotti, il secondo a venderli. Anche in vista delle Olimpiadi del 1936 tra loro non correva buon sangue su come arrivare a mettere le scarpette chiodate ai piedi degli atleti. Adi non pensava a quelli tedeschi, ma a un velocista del futuro nemico della Germania. Vedere le due strisce di pelle ai lati delle scarpe indossate dall’americano Jesse Owens pronto a scaricare tutta la sua potenza sulla corsia dei 100 metri, lo riempiva d’orgoglio.
Ma quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale tutta la potenza industriale della Germania doveva essere scaricata sul campo di battaglia. Se prima dalla Gebrüder Dassler uscivano scarpe chiodate per velocisti, ora uscivano pezzi di ricambio per panzer e bazooka. Alla fine della guerra sarebbe stato uno dei motivi della condanna di Adi alla semilibertà, perché di fronte alla commissione di denazificazione anche Rudi accusò il fratello di avere tenuto discorsi politici in fabbrica. Per due anni non avrebbe potuto produrre scarpe se non fosse intervenuta sua moglie a ribaltare la situazione depositando l’11 novembre 1946 una propria dichiarazione alla commissione. I membri credettero a Käthe e Adi tornò in libertà, e soprattutto in fabbrica.
A quel punto, con la totale assenza di fratellanza tra fratelli, uno dei due doveva andarsene. Rudi era convinto che senza di lui la Gebrüder Dassler sarebbe affondata: salire a bordo di una fabbrica tutta sua avrebbe accelerato quella fine. Arrivati alla resa dei conti i fratelli si spartirono il patrimonio e le risorse umane. I dipendenti furono lasciati liberi di scegliere: con Rudi andò chi lavorava all’ufficio vendite, alla Gebrüder Dassler restò chi lavorava nel reparto produttivo. A non restare invece sarebbe stato quel nome. Al registro delle imprese di Herzogenaurach, Adolf ne depositò uno che era già il nome di un’azienda di scarpe per bambini. Alla parola Addas allora aggiunse la ‘i’ del suo soprannome e una striscia in più alle scarpe.
Provò a farlo anche Rudolf con il proprio soprannome, ma con scarsi risultati eufonici. Di Ruda allora tenne solo le due vocali e sostituì le consonanti con la ‘p’ e la ‘m’. Grazie alla spartizione del patrimonio ora aveva le macchine e i tecnici per farle funzionare, ma era sprovvisto dell’intuito per il design e la progettazione del prodotto: finì per copiare le scarpe del fratello. Le vendite della Puma fecero comunque un balzo come suggerito anche dal disegno del logo: una striscia sottile che partiva dal tallone su entrambi i lati della scarpa e via via diventava sempre più larga, disegnando una traiettoria che atterrava a metà del piede. Sarebbe stato l’inizio di una lunga competizione commerciale all’interno delle competizioni sportive. Dai campi di calcio alle piste di atletica leggera, dagli stadi di football americano ai parquet del basket, la rivalità tra i fratelli Dassler si misurava nell’inseguimento delle stelle dello sport al ritmo di modelli di scarpe regalate, mazzette di denaro consegnate e strisce di pelle colorate.
Servivano a rinforzare i lati delle scarpe, ma nessuno le vedeva perché si confondevano con la tomaia. La versione a due strisce era legata alla Gebrüder Dassler, ma ora l’azienda si chiamava Adidas. Quattro erano troppe per lo spazio a disposizione, tre sarebbero entrate nell’immaginario collettivo dei consumatori di tutto il mondo. Se fossero state di colore diverso dalla tomaia, pensò Adi, le persone avrebbero potuto riconoscerle e soprattutto distinguerle dalla concorrenza. Da indispensabile supporto tecnico diventarono il più iconico strumento di marketing nella storia dell’abbigliamento sportivo. Come avrebbero raggiunto quel traguardo Frank Hartley sarebbe stato il primo a scoprirlo.
Il nuovo rivenditore autorizzato Adidas per l’Australia non avrebbe mai immaginato che cosa portasse nel proprio bagaglio Horst Dassler. Adi e Käthe spedirono laggiù il figlio ventenne per distribuire gratis le scarpe alle Olimpiadi di Melbourne del 1956. In quanto dilettanti, gli atleti non potevano ricevere denaro per le loro prestazioni, né essere riconoscibili nelle pubblicità. La potenzialità del testimonial veniva annullata con qualche espediente grafico, ma per Horst non ci sarebbe stata pubblicità più performante per l’Adidas mostrare, grazie ai media, gli atleti tagliare il traguardo con il modello Melbourne ai piedi: bianche, con tre strisce verdi ai lati e una croce sul tallone.
Il rigido principio etico delle Olimpiadi si sarebbe rivelato negli anni un tallone d’Achille e proprio lì si sarebbero insinuate tutte le frecce che i brand avevano al proprio arco. Nel pacco che Dick Fosbury ricevette dalla Germania, mentre si trovava a Città del Messico per le Olimpiadi del 1968, non c’era solo un paio di scarpette realizzate a mano con colori diversi per ogni piede. La mazzetta di denaro nascosta sotto le suole chiodate gli avrebbe dato una ragione in più per indossarle. Adi non poteva farsi sfuggire la grande visibilità che quella nuova tecnica di salto in alto avrebbe prodotto: una spinta all’indietro per portare il corpo di Fosbury oltre l'asticella posta a 2 metri e 24 centimetri senza farla cadere.
Fare cadere invece la palla ovale tra le braccia dei compagni in piena corsa verso la meta era il mestiere di Joe Namath. Ad attirare gli obiettivi dei media non erano solo i lanci del quarterback dei New York Jets, ma anche le sue spavalderie di cui i giornali erano molto ghiotti. Entrare in quell’esposizione avrebbe avuto di sicuro un costo: per l’esattezza 25 mila dollari l’anno. Tanto il figlio di Rudolf Dassler decise di pagarlo, con l’arrotondamento in centesimi: 25 per ogni scarpa venduta da Puma con il nome Namath. Solo quell’anno, il 1972, ne vendettero 400 mila. Quel successo confermava che, per una gara persa in partenza nel confronto tra i budget, la strategia di Armin funzionava: mentre il cugino Horst regalava le scarpe agli atleti più forti in gara, lui concentrava i propri sforzi sui pochi atleti forti anche nei media.
Per non surriscaldare troppo il clima di quella partita commerciale, i due cugini fecero quello che i padri non avrebbero mai osato mettere in campo. Con l’accordo siglato a pochi mesi dai Mondiali di calcio del 1970 in Messico, Horst e Armin si impegnarono a non fare da sponsor a Pelè. Del resto, entrambi riconobbero che non potevano permetterselo. La stella del Brasile era ancora senza contratto pubblicitario, eppure c’era chi avrebbe scommesso che o il figlio di Adi o il figlio di Rudi non avrebbe resistito alla tentazione. Ma quanto valeva rompere l’accordo? Venticinque mila dollari per tutta la durata del torneo, più altri cento mila dollari per i 4 anni successivi, con diritti d’immagine del 10% sulle scarpe da calcio Puma firmate Pelè. Armin andò di persona a Santos per consegnargli il denaro. Fu una rendita mediatica inarrestabile se si pensa che la resa commerciale sconfinò la durata del contratto in una lunga striscia di vendite dei modelli Puma King e Puma Black Pearl.
«È tutta questione di socialità». Gli affari si fanno con le relazioni e per intrattenerle servono le lingue. Horst ne conosceva almeno cinque, un mazzo di chiavi che gli avrebbe aperto le porte di molti uffici di dirigenti sportivi. In quegli incontri metteva un basso profilo nel fare domande e un’alta dose di premurosità nel dare risposte. La sua attitudine alla socializzazione era così spiccata che un giorno volò al di là del muro. Quando il cugino Armin cercò di farvi breccia senza farlo crollare, trovò un muro invalicabile: il contratto che Adidas aveva stipulato con i dirigenti della Germania dell’Est. E quando non sarebbe arrivato per primo, Horst trovava sempre il modo di insinuarsi negli affari di Armin. Se al più grande calciatore dell’Olanda facevano male gli scarpini della Puma, quelli dell’Adidas prendevano il loro posto ai piedi di Johan Cruijff.
Per quelli come lui il problema era stare in piedi su campi spesso scivolosi e inzuppati. Con i tacchetti regolabili inventati da Adi Dassler avrebbero potuto fare qualunque giocata con qualsiasi condizione del terreno. Era uno dei 700 brevetti che Adidas depositò in 50 anni di ricerca delle soluzioni. Movimento bruschi, poca aderenza, scivolate a ripetizione. Con le Converse di tela i giocatori di basket erano sempre infortunati. Le All Star dominavano l’Nba, ma continuavano a saltare i legamenti di ginocchia e caviglie: le Superstar le avrebbero estromesse dal mercato. Tomaia in pelle, scanalatura a spina di pesce sotto la suola e sulle punte un supporto a forma di conchiglia. Le scarpe avevano un maggiore stabilità sul parquet e sotto il canestro le dita dei piedi erano protette contro i pestoni durante i duelli.
Ma il duello più impegnativo Adidas l’avrebbe affrontato in quel 1971 con l’ingaggio della stella del basket americano. Nella testa di tutti c’erano due metri e diciotto centimetri di statura che arrivavano a tre quando con il suo gancio alzava il braccio verso il cielo per dare i due punti ai Los Angeles Lakers. Per assicurarsi l’esclusiva della sua immagine, i Dassler si convinsero a versare ogni anno 25 mila dollari nel conto corrente di Kareem Abdul-Jabbar. Fu una resa commerciale che sarebbe sconfinata quindici anni dopo nella musica con il brano My Adidas dei Run DMC e che avrebbe reso ancora più vasto e indecifrabile il patrimonio mediatico di Adidas.
Nemmeno Adi Dassler aveva la contezza di quante fabbriche avesse messo in piedi nel mondo e di quante scarpe avesse messo ai piedi degli atleti. A 70 anni continuava a girare con il taccuino tra i reparti produttivi a prendere appunti per migliorare prodotti. Poteva contare per questo su 3000 dipendenti solo in Germania e su impianti produttivi in 17 paesi da dove nel 1978 uscivano ogni giorno 180 mila paia di scarpe destinate ai negozi di 144 paesi. Ma forse a contare di più era un altro numero. Aveva già 49 anni quando rese tutto questo possibile con la costituzione della Adolf Dassler Adidas Schuhfabrik, dimostrando che anche a quell’età impossibile is nothing.