Dalle tute ai costumi.
Storie, non storytelling.
Seconda puntata.
«Non mi interessano gli stracci». Il business l’aveva messo in piedi con le scarpe per una lunga corsa nella stretta corsia del mercato. Attaccare le tre strisce ai lati di una tuta secondo lui l’avrebbe rallentata. Che un giorno però glielo avessero chiesto tutti gli allenatori della Bundesliga fu l’occasione per Adi Dassler di staccare i piedi da terra. A indossarle per primi furono i giocatori del Bayern di Monaco negli anni Settanta. Poi, dal calcio le tute arrivarono all’atletica leggera, ma per i rigidi principi delle Olimpiadi quelle tre lunghe strisce che dalle spalle arrivavano ai piedi occupavano troppo spazio. Sembrava più una tuta per fare brand che per fare sport.
Il logo che le avrebbe sostituite fu creato da un piccolo studio di design a Norimberga: tre foglie a punta tagliate alla base da tre strisce. A volare allora non sarebbero stati gli stracci, ma le vendite. Adi fu costretto a riconoscere che l’estensione di marca dalle scarpe all’abbigliamento aveva accelerato la corsa in quella corsia del mercato sempre meno stretta. Ma per mantenere quell’andatura tutti i capi dovevano essere legati con o senza lacci alle scarpe: «I costumi da bagno mai, con il marchio Adidas mai».
Mettere le tre strisce in acqua era sempre stata un’idea del figlio Horst. Per sfuggire ai controlli del padre e godere della necessaria autonomia imprenditoriale aveva creato Arena. Sotto quel marchio per anni aveva venduto palloni di cuoio in Spagna e scarpe da ginnastica a basso costo in Francia. I tre rombi del logo erano stati disegnati proprio dall’ufficio marketing di Adidas Francia. Passare dall’area di rigore alla corsia di una piscina per Horst sarebbe stato come un tuffo di testa. Tanto dentro la sua era già tutto chiaro cosa fare dopo in acqua: prototipi, produzione, marketing, distribuzione. Con due ore di riunione passate a illustrare il piano, aveva già dato lavoro per tre anni all’ufficio export.
Il bagno ufficiale dei costumi Arena avvenne nel 1973 ai campionati europei di Berlino. A indossarli ai Mondiali di nuoto in Colombia nel 1975 erano già due terzi dei nuotatori in gara. Due ore di riunione, due anni di tempo, due terzi del mercato agonistico che Adidas non poteva permettersi di lasciare al nuovo brand arrivato. Gli stracci allora avrebbero continuato ad estendere la marca. Con i costumi, Adidas avrebbe quasi ribaltato il rapporto di forze tra abbigliamento e scarpe.
A ribaltare invece i rapporti di forza nel mercato ci avrebbe pensato un mezzofondista uscito dalla Standford Business School. Phil Knight ai piedi aveva sempre le Adidas per le gare, ma in testa aveva l’idea per un nuovo marchio. Andare in Giappone per farsi ricevere dal Ceo della Tiger faceva parte del piano. Nell’ufficio di Kihachiro Onitsuka si presentò come titolare della Blue Ribbon Sports che nel 1962 stava solo sulle pagine della tesi di laurea, ma quel bluff gli fruttò l’esclusiva per gli Stati Uniti delle scarpe Tiger. Il boom di vendite spinse Knight a bluffare ancora di più, violando il contratto per dare vita alla Nike. In realtà, avrebbe dovuto chiamarsi Dimension Six, se un dipendente della Blue Ribbon Sports non gli avesse spiegato che si trattava della dea greca della vittoria. Pagò 35 dollari per il disegno di quella virgola orizzontale sospesa nel vuoto, nulla invece gli costò il processo per la causa intentata da Onitsuka. Da quella sconfitta in tribunale sarebbe nata Asics: un’Anima sana in Corpore Sano.
«Dovete farli fuori subito». Gli animi erano troppo accesi quel giorno in riunione e i corpi tesi come una molla. Quando i pugni sbattono sul tavolo la discussione volge sempre al peggio. A farsi sentire in quei frangenti era stato Bill Closs che per l’Adidas seguiva le vendite sulla costa occidentale degli Stati Uniti. Più volte in precedenza aveva lanciato l’allarme: una piccola azienda stava occupando grandi spazi nelle vetrine e negli scaffali dei negozi in California. La Blue Ribbon Sports era balzata fuori dalla pagina di una tesi di laurea e si era materializzata a Beaverton nello stato dell’Oregon. Per dare conto di quanto la faccenda fosse fuori controllo, Closs portò in riunione le scarpe che con un colpo d’Air avrebbero spazzato le Superstar dall’Nba.
In quel confessionale drammatico i dirigenti di Herzogenaurach tendevano a sottovalutare la questione, sicuri che la quota più alta che poteva raggiungere la qualità di una scarpa da basket l’avrebbe garantita solo Adidas. In effetti, i modelli della Nike all’inizio lasciavano molto a desiderare: già dopo alcuni usi la tomaia si scollava e la suola perdeva pezzi. Knight però non perse la pazienza e continuò a lavorare con il suo team per risolvere i problemi e alzare la quota della qualità delle scarpe. Per quanto si poteva vedere da quelle posate da Bill Closs sul tavolo della riunione, sembrava ci fossero riusciti, ma quello che i dirigenti tedeschi non potevano vedere era la strategia di marketing dietro quell’avanzata inarrestabile. Si chiamava futures: ordini fissi e pagamenti anticipati da parte dei rivenditori, sconti sugli ordini e consegne certe da parte del produttore. Knight aveva il mercato in pugno e la società ai suoi piedi.
Ai piedi degli appassionati si stava facendo strada un nuovo tipo di corsa: amatoriale, a passo lento, rivolta al benessere personale. Stava portando gli americani a correre sulle strade e sui marciapiedi delle città. Ken Hutch nella serie tv Starsky #38 Hutch lo testimoniò in più puntate alla fine degli anni ’70. Dall’America i rivenditori chiedevano scarpe morbide per ammortizzare l’impatto sulle superfici, dalla Germania rispondevano con l’elenco dei danni che avrebbero causato a caviglie e ginocchia. Quella moda venne liquidata con l’improntitudine «Il footing non è uno sport». Di lì a poco sarebbe invece diventata un’abitudine quotidiana per molti. La reazione dell’Adidas fu troppo lenta per un mercato che assorbiva con passo veloce le tendenze della società. Fino alla metà degli anni ’80 il modello di punta dell’Adidas correva alla velocità di 100 mila paia l’anno negli Stati Uniti. Lo stesso numero di Waffle, Nike lo vendeva in un mese. Assorbiti dalla competizione con Puma, in Adidas dimenticavano che il vero concorrente nel mercato ora era Phil Knight.
A tirarlo fuori dai guai processuali per la causa sull’esclusiva delle Tiger era stato un avvocato con il fiuto per i campioni: «Saranno loro gli eroi per chi non può vincere». Rob Strasser stava seguendo un ragazzo con aveva tutta l’aria di possedere ali al posto dei piedi. Le Air Jordan si sarebbero staccate con loro dal parquet ogni volta che avrebbe mirato il canestro, ma prima quanto sarebbe costato staccare Michael dalle sue Adidas? «Non voglio firmare con nessun altro». Dalla Germania erano disposti a versargli la stessa cifra che intascava Kareem Abdul-Jabbar: Rob Strasser la moltiplicò per 24, al netto dei diritti sulle vendite di scarpe e abbigliamento che portavano il suo nome. Trattato con i guanti Michael Jordan avrebbe portato alla Nike un fatturato di oltre 100 milioni di dollari.
Ma che la pelle dei guanti fosse stata usata da una filiale produttiva in Asia per realizzare la tomaia di un nuovo brand di scarpe, non sembrava un’idea calzante che potesse infilarsi dentro le strette vie del business. Il responsabile della produzione infatti corse subito a chiedere scusa e a dare spiegazione dell’errore in una lunga lettera. A Boston però in quelle «sgradevoli grinze» i dirigenti della Reebok videro invece la morbidezza richiesta dal target femminile. Il settore dell’aerobica stava decollando nelle palestre e il modello Freestyle della Reebok avrebbe preso piede negli Stati Uniti. Da lì avrebbe preso l’ascensore per la più vertiginosa salita nelle vendite mai compiuta da un brand sportivo. 300 mila dollari nel 1980, 12,8 milioni di dollari nel 1983, 1,4 miliardi nel 1987. Che in Adidas non si fosse mossa una foglia di fronte a quella scalata non sorprese tanto quanto invece fece scalpore la reazione della Nike: «Un gruppo di donne grasse che ballano a tempo di musica». Nel frattempo, però, a ballare era tutto il mercato messo sottosopra prima da Nike e ora da Reebok. Se al momento del loro ingresso Adidas deteneva oltre il 50% del mercato americano, adesso aveva il fiato corto per rincorrerle.
Ma a trattenere il fiato cinque anni più tardi sarebbero stati i dipendenti di Adidas. La situazione finanziaria traballava tra le chiusure dei propri stabilimenti in Europa e le aperture di fabbriche che lavoravano per la Nike in Estremo Oriente. Il meno 15% nei margini di Adidas corrispondeva al più 15% dei margini che alimentava gli investimenti pubblicitari della concorrenza. Anche le acquisizioni dei marchi Le Coq Sportif, Pony e Arena avevano inciso sulla liquidità dell’azienda. Alla fine del 1986 le quattro sorelle Dassler iniziavano a dubitare sulla capacità del fratello di trovare una via d’uscita alla crisi. Anche perché una malattia che si sarebbe rivelata poi invincibile lo stava debilitando. Horst abbandonava le riunioni in anticipo, non partecipava alle cene di lavoro, sgattaiolava di fronte alla domanda sulla sua salute. L’uomo che aveva portato Adidas a un fatturato di 4,1 miliardi di marchi sarebbe morto il 9 aprile 1987. Sigrid, Karin, Inge e Brigitte si trovarono con l’80% delle azioni in mano, senza una guida al loro fianco e con il futuro acquirente senza un soldo.
Bernard Tapie era un noto affabulatore nel mondo degli affari. Di fronte alla decisione improcrastinabile di sbarazzarsi di un’azienda che non erano in grado di rimettere in corsa, si inserì con uno scatto diabolico nella trattativa strappando un prezzo paradisiaco, ben lontano dal valore di Adidas. Il brand valeva molto più di 550 milioni di marchi. Poco importa se Tapie non ne aveva nemmeno uno in tasca. A riempirla era pronto un prestito da rimborsare alle banche in due anni. Gli avrebbe consentito di dichiarare che «A eccezione della nascita dei miei figli, questo è il giorno più bello della mia vita». Purtroppo, corrispondeva con il giorno più brutto della vita di Adidas: a un anno dall’inizio del finanziamento l’azienda si sarebbe trovata a un passo dalla sua fine. Tapie non aveva i soldi per rimborsare la seconda parte del prestito.
Eppure, c’era tutto da guadagnarci a scongiurare il fallimento. Ad approfittarne accorsero nel 1993 due investitori francesi. Robert Louis-Dreyfus e Christian Tourres strapparono Adidas dalle sciagurate mani di Bernard Tapie a un prezzo stracciato: 2 miliardi di franchi francesi, 305 milioni di euro oggi. Quelle svalutazioni in costante picchiata avevano calpestato la reputazione del brand. Per rimetterla in piedi Louis-Dreyfus avrebbe dovuto strappare alla concorrenza l’uomo che aveva portato in aria le loro scarpe e in alta quota le loro vendite. Rob Strasser in quel periodo stava seguendo un ragazzo al camp dell’Academic Betterment and Career Development. Con un contratto da 48 milioni di dollari per 6 anni, le KB8 si sarebbero staccate dal parquet ogni volta che avrebbe mirato il canestro per il suo palleggio-arresto-tiro. Ma non erano Nike quelle che Kobe Bryant avrebbe avuto ai piedi.