«Penso di avere visto il migliore giocatore di high school di sempre». Il compito di Roy Williams era assicurare all’Università del North Carolina i ragazzi più dotati dello Stato. Il percorso di carriera a Chapel Hill prevedeva la panchina per gran parte del primo anno e 7-8 minuti a partita nel secondo. Al terzo il prescelto sarebbe entrato nelle rotazioni per circa 25 minuti di partita. Al quarto anno sarebbe diventato un punto di forza della squadra e avrebbe preso le decisioni insieme all’allenatore. Dean Smith aveva messo a punto un sistema di valori perché i ragazzi si guadagnassero il posto attraverso la fatica: nessuno doveva arrivare troppo in fretta alla notorietà. Arrivò invece qualcuno a capovolgere nel 1981 l’etica di quel sistema. Per quanto Smith cercasse di limitare il talento di Michael Jordan in nome del sistema, il talento era talento: impossibile ignorarlo.
Nel 1984 i Chicago Bulls erano una società sportiva ai margini. Al centro degli interessi degli abitanti c’erano il football, il baseball e soprattutto l’hockey su ghiaccio: il loro disinteresse spiegava l’incapacità della dirigenza dei Bulls. In biglietteria lavorava solo una persona e in quell’anno aveva venduto solo 2047 biglietti. A Los Angeles e a Boston invece Magic Johnson e Larry Bird con la loro rivalità stavano risollevando dal fondo l’immagine della Nba. Le agenzie di Madison Avenue non la consideravano e i network televisivi non la mandavano in onda: le Finals del 1980 erano state trasmesse dalla Cbs a tarda notte e in differita con un indice di ascolto del 7,6%. Nel suo ultimo anno Jordan lo avrebbe capovolto: sarebbe salito al 22,3% con 29,4 milioni di americani davanti allo schermo.
Anche la Nike in quei tempi era a terra. Il mercato delle scarpe da basket era dominato da Adidas e Converse. Fino a quel momento Nike aveva sponsorizzato tanti giocatori, ma di media bravura. Fu il responsabile marketing Rob Strasser a suggerire a Phil Knight il capovolgimento della strategia: scegliere il migliore e ricoprirlo di soldi. Sonny Vaccaro non lo conosceva di persona, ma come talent scout dell’azienda lo seguiva già dal terzo anno di liceo. Per lui non c’erano dubbi su chi doveva scegliere il fondatore della Nike per capovolgere la strategia.
85 chili distribuiti in 198 centimetri, due lunghe braccia guidate da mani enormi. E poi il cranio rasato e i pantaloncini corti che indossava: il primo sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica, i secondi si sarebbero allungati fino al ginocchio per diventare una moda dell’Nba. Non era un giocatore che aveva firmato un contratto, ma un uomo che aveva assunto un compito. Per chi era stato preso come terza scelta nel draft della Lega da una squadra che stava in fondo alla classifica, il compito per 7 anni a 6,3 milioni di dollari era di capovolgere quella posizione e mettere sottosopra i numeri della società dei Chicago Bulls. Il numero degli abbonamenti schizzò in alto, le vendite dei biglietti fecero un gran balzo, le firme dei contratti radiofonici e televisivi erano come tiri da 3 punti. C’erano 40 milioni di dollari in più in bilancio e più impiegate in biglietteria. Ora erano in 6 ad aiutare il più grande venditore di biglietti di sempre nella storia del basket.
Velocità dei movimenti in ogni azione, controllo del corpo in ogni suo meccanismo, imbattibile nel crossover a due mani e nelle acrobazie con il canestro alle spalle. Molti avevano sentito parlare delle sue giocate da qualcuno che conoscevano. Era gente che aveva avuto la fortuna di passare davanti a un campetto sperduto di Wilmington e lì Jordan era apparso all’improvviso. Si era allacciato le scarpe, sistemato la maglietta e lanciato la sfida ai ragazzi più grandi di lui. «Ti schiaccerò in testa» era la sua provocazione preferita. Ma poi – a ben guardare – non era arroganza piena di sé: era piena di fatti. Quello che nelle sue spacconate diceva, poi lo faceva. Così, lasciava tutti a bocca aperta per un’ora prima di sparire da dove era comparso.
Da professionista sarebbe sempre comparso in palestra. Aveva un programma da svolgere ogni giorno e un obiettivo da raggiungere: 97 chili di peso. Avrebbe dovuto distribuirli su tutto il corpo per acquisire più robustezza senza però perdere in rapidità, l’altro marchio di fabbrica di Jordan. Invece di fare troppo e troppo in fretta decise di spalmare le sedute giornaliere di pesi in 4 anni. C’era però un conto da pagare per arrivare a quel risultato. Sparirono i tiri in sospensione, aumentarono gli errori nei lay-up sotto il tabellone, ma sarebbero spariti anche i guai tipici del basket: gli infortuni alle caviglie, ai polsi, alle spalle, alle ginocchia, alle anche. «Quella è gente mi picchia a morte, devo difendermi con un altro corpo». Tim Grover gli avrebbe costruito addosso l’armatura per assorbire i colpi e portare ancora più in alto la sua competitività.
Trovava il modo di alzare la posta ovunque: in allenamento, in aereo, sul green. Scommetteva piccole somme: 25 centesimi per un tiro libero dalla lunetta. E la dimestichezza con i calcoli matematici lo trasformarono in un abile giocatore di carte. Ci giocava in aereo con i compagni durante i trasferimenti da una città all’altra della regular season. Ma il canestro non era l’unico buco dove faceva passare la palla. Per liberarsi dalla pressione mediatica e psicologica aveva scoperto il golf. Di solito erano 100 dollari a buca, ma arrivava a giocarne anche 1000: aveva iniziato a competere con l’azzardo per continuare a vincere nella vita. Divenne preda degli allibratori, sgherri che frequentava altri ambienti: traffico di droga, evasione fiscale, prostituzione. Con 30 mila dollari in contanti Jordan affrontava maratone non-stop per giocare 27 buche con una mazza e puntare la giocata con una scommessa.
Con 3 anelli al dito nel 1994 era tempo di scommettere su un altro sport. Al suo preparatore atletico chiese di studiare un programma di allenamento per il baseball. Per Michael Jordan il basket stava diventando solo un lavoro: abbandonarlo nel pieno della sua carriera sembrava un altro dei suoi azzardi. Ma ora quello che metteva sul piatto delle scommesse non era il suo denaro, ma la sua immagine. Qualcosa che – solo in sponsorizzazioni – sfiorava i 30 milioni di dollari. Nemmeno la copertina di Sports Illustrated riuscì a distoglierlo dalla decisione. «Lascia perdere, Michael» fu una mazzata per il suo orgoglio, molto di più che fare parte di una squadra di serie minore. Nei Birmingham Barons avrebbe giocato con compagni di 10 anni più giovani di lui, a 850 dollari al mese e 16 dollari di buoni basti al giorno.
Cambiava lo sport, non la mentalità di Jordan. Era il primo ad arrivare agli allenamenti e l’ultimo ad andarsene. Sembrava impossibile che potesse fallire in uno sport dove si stava impegnando come sempre aveva fatto nel basket. Non sembravano nemmeno atleti: alcuni era alti 175 centimetri con una percentuale di grasso del 20%. Ma solo così gli avversari potevano mandare la palla dove volevano: lui invece in 436 turni colpì solo 3 fuoricampo e 50 battute valide. Il suo corpo era del tutto sbagliato per tenere in mano una mazza e un guantone.
Jordan conosceva la causa: l’innocenza, quell’infantile energia che lo portava ogni giorno in campo per il solo gusto di giocare a basket. Quando decise di lasciarlo per il baseball, riconobbe di averla persa. Quella che avrebbe potuto rivedere solo se – nonostante i soldi che guadagnava e la gloria che accumulava – si fosse fermato con l’auto vicino a un campetto dove stava giocando un pugno di ragazzini. Per un Michael che tentava di liberarsi di Jordan tra le 4 basi di un campo di baseball, c’era un Jordan dentro Michael che aveva ancora qualcosa da dire nel basket.
Iniziarono a giocare uno contro uno. B.J. Armstrong in felpa e scarpe da ginnastica, Michael Jordan in pantaloni casual e mocassini. I ritmi erano bassi, ma alla fine i vestiti sarebbero stati zuppi. Il giorno dopo Michael chiamò la Nike e ordinò un paio di sneakers. Quello che in seguito gli appassionati di basket avrebbero visto era qualcosa che aveva nascosto fino a quel momento della carriera. Perché sono in molti ad avere talento per potere essere un campione, ma nessuno sa che cosa serve per diventarlo. Jordan lo mostrò negli ultimi 3 anni di carriera e durante i 30 secondi finali di gara 6 della stagione ’97-‘98 contro gli Utah Jazz, il suo ultimo capovolgimento. Era la sua ferocia nel dominare tutto quello che si muoveva in campo: compagni, avversari, spettatori, i tiri all’ultimo secondo. Quelli entrano solo grazie all’elevazione perentoria delle gambe e al movimento del polso ripetuti all’infinito in allenamento. Se c’era una cosa che non aveva niente a che fare con quel tiro, quella cosa era il talento.
Andrea Ingrosso
Copywriter – Autore di scrittura per le aziende.
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