La resilienza di
Marina Abramović.

C’è una donna nuda sotto la doccia. Un sacco di gente la sta guardando in silenzio. Lo rompe con un urlo sordo a volte, mentre un metronomo ticchetta. Se chiude il rubinetto è per asciugarsi, andare in camera a vestirsi e stare di fronte al pubblico senza mai cambiare posizione. Può solo dormire 7 ore al giorno, bere acqua, appoggiarsi sulla seduta e fare scrosciare la pipì dentro la pozza del water. Non mangia da 150 ore mentre scocca l’ottavo dei 12 giorni di The House with the Ocean View alla Sean Kelly Gallery di New York. Alla fine del 2002 la sua arte è senza oggetti: solo lei, le sue azioni, il pubblico.

Sono 72 invece gli oggetti sparsi sul tavolo nel 1975 alla Galleria Morra Arte Studio di Napoli. Una forchetta, una boccetta di profumo, zucchero, un’ascia, una campana, una piuma, catene, aghi, forbici, una penna, un libro, miele, una sega, un osso di agnello, un giornale, uva, olio d’oliva, una macchina Polaroid, un rametto di rosmarino, uno specchio, una rosa, un rossetto, una grande collana d’oro, una bombetta, una pistola, un proiettile. Prenderli per fare quello che vogliono sul suo corpo è l’invito che Marina fa al pubblico. Sono le libertà di Rhythm 0 che le persone possono prendersi, mentre lei rimane immobile per 6 ore. Ma ne passeranno 3 prima che qualcuno inizi a posarle la bombetta in testa, a rovesciarle la boccetta, a scattare una Polaroid, a metterle in mano lo specchio con «Io sono libera» scritto in rossetto. Qualcun altro vuole divertirsi e allora le apre la camicetta per scoprire il seno o le fa impugnare la pistola carica puntata al collo.

Con un’arma in mano però si ritrova già a 16 anni, quando un giorno è a casa da sola con un amico. Iniziano a giocare alla roulette russa con quella di sua madre che si passano a turno per puntarla alla tempia e premere il grilletto. Capiranno che il gioco è idiota quando il caso li risparmia e Marina indirizza la bocca della pistola verso la biblioteca: questa volta il colpo parte e colpisce L’idiota. I libri sono per lei un’arma in più, così ogni volta che torna da scuola il venerdì pomeriggio si ficca subito a letto e passa il fine settimana a leggere Dostoevskij, Kafka, Proust, Gide.

Ma la passione per le armi le rimane e quelle da taglio diventano nel 1972 le protagoniste della performance Rhythm 10 al festival di Edimburgo. A portare Marina in Scozia è il gallerista Richard Demarco. Un grande foglio di carta srotolato a terra, 2 registratori, 10 coltelli: è la composizione della scena che gli spettatori si trovano davanti agli occhi. Il rumore della lama si ficca dentro le loro orecchie quando Marina allarga le dita della mano e fa partire il ritmo del primo coltello. È il pugno dell’altra mano che lo pianta in rapida successione negli spazi tra le dita. A volte Marina emette un gemito perché li manca, ma i tagli non sono mai profondi come i rumori che registra per farli riascoltare al pubblico mentre lei esce di scena.

All’Accademia di belle arti rientra il 22 dicembre 1973, questa volta da insegnante. A Novi Sad firma un contratto per 1.995 dinari al mese, un compenso che non ha mai preso prima. Si alza il guadagno nel suo lavoro, si alza la posta nella sua arte. È a Rhythm 5 che Marina affida questa responsabilità. Avvicinarsi troppo può diventare pericoloso, ma lei non dà retta a nessuno. Alla fine ci entra proprio nella stella posata a terra. Dentro lo spazio della cornice tanti trucioli imbevuti di benzina aspettano di prendere fuoco. Marina si distende al centro, mette la testa, le braccia e le gambe in corrispondenza delle 5 punte e con un accendino dà la prima fiamma. Le altre che arriveranno a ruota consumeranno tutto l’ossigeno al centro della stella. Nessuno del pubblico si accorge che lei ha perso i sensi. Sarà il pittore Radomir Damnjan a salvarla, ma anche a un passo dalla morte Marina non smette di pensare a come tenere in vita le sue performance. Così, perdere il controllo diventa un’eventualità e non più la causa della sua fine anticipata. A 27 anni ha dimostrato che il coraggio non le manca, il senso di responsabilità verso sé stessa, ancora sì. Alla fine, mette a bilancio il costo di quell’esperienza che lascerà tracce già sulla nuova performance.

È con 2 pillole che nell’ottobre del 1974 si presenta al Museo di Arte contemporanea di Zagabria. Una stimola il movimento dei pazienti catatonici, l’altra seda gli schizofrenici. Spasmi, contrazioni e un ghigno involontario sul volto sono le conseguenze sintomatiche della prima. Marina rimane lucida e cosciente, ma senza il controllo del corpo fino a quando l’effetto termina e arriva il momento di prendere la seconda. Per 5 ore sprofonda nel torpore, in preda a una resa che si autoimpone. È la perdita di controllo programmata di Rhythm 2, il suo modo di prepararsi alla morte.

A un passo dalla morte arriva anche una sera del 1975 al rientro a casa, come sempre prima del coprifuoco. Nel Salone del Museo di arte contemporanea di Belgrado ha lasciato gli invitati all’inaugurazione della mostra fotografica che espone gli scatti della serie Rhythm. Trova sua madre ad aspettarla: Danica sa delle foto dove Marina compare nuda. «Come puoi umiliare così la tua famiglia, comportarti come una puttana?». Le parole quella sera volano, come a un tratto anche un pesante portacenere di vetro. La mira è perfetta. Pensa di farsi colpire per morire, ma all’ultimo istante scansa la testa da quella rotta e sé stessa dalla morte.

Come da una nuova vita si scansa quando – sempre in quell’anno – rimane incinta. Durante l’Accademia si innamora dell’artista Neša Paripović. A Danica quell’uomo non piace: è troppo attaccato al divano e alla bottiglia. Anche se in casa ha lo spazio per ospitarli, lei si oppone al trasferimento. La coppia una casa non può permettersela: alla fine, non vivranno mai insieme. Eppure, in una delle rare notti che passano stretti l’uno all’altra, senza che sua madre se ne accorga, arriva quello che Marina non avrebbe mai voluto. «Dentro di me non ho pensato nemmeno un secondo di tenere il bambino. Non ho mai voluto avere figli, nella maniera più assoluta. Era il più grande terrore della mia vita. Mi avrebbe ostacolato nel lavoro».

È nata per stare davanti a un pubblico, non di fronte a una tela. A Belgrado inizia a frequentare l’Accademia di belle arti, ma già in quel 1965 dimostra di non avere la stoffa per dipingere. Durante una lezione il suo insegnante le dice che «per fare l’artista bisogna avere le palle». Lei lo prenderà alla lettera.

Quando nel 1997 per 4 sere di fila rientra nella sua stanza lo fa per ficcarsi sotto la doccia. Deve togliersi di dosso l’odore di carne rancida dopo 7 ore passate a pulire 300 ossa di una mucca. Mentre la guerra affida alle bombe il compito di fare pulizia etnica, Marina affida all’arte il compito di placare il senso di colpa per essere distante dalla sua terra. Con Cleaning the House cerca di scontare i peccati delle stragi commesse dai macellai della guerra in Bosnia prima, e in Kosovo dopo. Le bastano una spazzola e un secchio d’acqua per sfregare ossa fresche piene di nervi e cartilagini. Per molti giorni dopo la performance non riuscirà a mangiare carne. Questa volta però Marina Abramović non perderà i sensi, ma vincerà il Leone d’oro come migliore artista alla Biennale di Venezia.

Andrea Ingrosso

Copywriter – Autore di scrittura per le aziende.

© 2021 Mamy

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