Scopre la sua scrittura al terzo anno di scuola superiore. Scrive cronache sportive sul giornale degli studenti, a volte pezzi ironici sulle manie e i vizi della scuola. Così, decide di non passare dalla scuola al college per farsi il pezzo di carta, ma di andare nella realtà per farsi le ossa. Sarà la scelta che lo farà diventare quello che poi sarebbe diventato: un uomo tutto d’un pezzo sulla prima pagina per non sbriciolarsi in mille pezzi dopo una giornata.
Assorbe tutto quello che c’è da sapere sul giornalismo. Dorme sul divano dell’ufficio nella redazione del quotidiano Star dove inizia a scrivere come stagista. Frasi semplici come il pane, inizi brevi come scintille, notizie che accendono la curiosità. Azzera le parole superflue per condividere con il lettore solo parole che contano. È così che Ernest racconta la realtà. Prende i pezzi del puzzle che è la vita di strada – prostitute, pugili, politici, avvocati, banchieri, preti, cuochi, domestiche – e li mette insieme. Le loro vite crude acquistano sapore con la narrazione della notizia del giorno, che diventa storia.
Ernest invece diventa autista di ambulanze della Croce Rossa americana. Dalla sua gamba estraggono 227 frammenti di metallo. È il contenuto di una lattina che gli si sbriciola addosso, fatta esplodere da un mortaio a Fossalta di Piave. Siamo nel pieno della Prima Guerra Mondiale che non smette di andare avanti. Lui invece torna a casa a Oak Park e passa le mattine a leggere nella sua stanza. Non è pronto per trovarsi un lavoro ed è troppo vecchio per andare al college. Così, Ernest continua a farsi le ossa nella scrittura e si dedica con regolarità alla carne.
Sposa Hadley Richardson e nel 1921 si trasferiscono in Francia. A Parigi Ernest si porta la sua macchina da scrivere e scrive oltre 30 articoli per lo Star di Toronto. Ma Gertrude Stein gli consiglia di abbandonare il giornalismo e di darsi alla narrativa. Lo esorta a trovare il punto dove le emozioni fermano l’ago della bilancia della sua vita, il peso-forma della sua scrittura per scrivere con la necessaria autenticità che si deve al lettore.
«L’invenzione è un’ottima cosa, ma non si può inventare qualcosa che non accadrebbe nella realtà.» È così che Ernest inventa la sua scrittura asciutta come la pasta in mezzo al brodo di scritture riscaldate come la minestra. Tra le sue parole non c’è spazio per annacquamenti di descrizioni degli ambienti e dei luoghi, per il ritratto di personaggi o famiglie. Quando elimini il contorno della narrazione, è la storia che ti rimane in mano. Così, Ernest può tessere la drammaticità degli accadimenti, innescare il conflitto tra i personaggi, regolare l’intensità dei loro dialoghi.
Tutto il resto è pesato sulla Bilancia di Ernest: il piatto della concretezza contrapposto al piatto della irrilevanza. Ernest è l’unico tra gli scrittori della sua epoca ad avere la capacità di determinare il contrappeso tra i due piatti. A fare da contrappeso alla dose di tara che la storia ha in sé, al netto della narrazione che poi metterà sul piatto.
Ernest sa sottrarre la tara di confezionamenti inutili e prevedibili di un racconto per avere in mano solo il peso netto: la storia. «Se non sai inventare buone storie non dovresti metterti a scrivere. Il ricordo di una storia vera è sempre più piatto di una storia inventata.» Il lato autobiografico in Ernest è sempre congiunto in modo cartesiano al lato dell’invenzione di Ernest. Tra quei due assi si sviluppa la parabola ascendente della sua funzione di scrittore.
Allora, arriva il giorno che smette di mostrare i suoi manoscritti a Ezra Pound o a Gertrude Stein, ma non smette di leggere i grandi scrittori. O’neill, Millay, Dos passos, Hughes, Fitzgerald, Anderson, Stein, Cummings, Eliot, Williams, Du Bois, Lewis, Pound: tra le loro pagine trova l’ispirazione per scrivere e pubblicare centosettanta copie di In your time, la sua prima raccolta di racconti. Ma per diventare un grande scrittore Ernest sa che deve uscire dalla misura corta dell’articolo o del racconto. Sa che deve scrivere un romanzo lungo. Sull’argomento il dibattito all’epoca è ai ferri corti. Da una parte ci sono quelli come Ezra Pound. Per loro la prosa deve avere le caratteristiche della poesia: breve, diretta, ospitale. Dall’altra parte ci sono i critici che sostengono i romanzi complessi, pieni di descrizioni e di centinaia di pagine. Oggi sappiamo da che parte starà Ernest.
Scrive Torrenti di primavera. La casa editrice Liveright lo rifiuta, non il grande editor Max Perkins che lo pubblica insieme all’altro suo romanzo di quel periodo, Fiesta. Scott Fitzgerald gli consiglia di accorciare la parte iniziale prima di darlo alle stampe. E di eliminare alcune descrizioni poco convincenti e qualche passaggio poco curato. Ernest fa di più: taglia tutta la parte iniziale. Ciò che non taglia sono le relazioni extraconiugali. Mette più di un ingrediente nella bilancia dell’amore. Tra lui e Hadley frappone Pauline Pfeiffer, un’americana che lavora nella redazione di Vogue a Parigi.
Tendenze depressive, sensi di colpa, paura di fallire: Ernest inizia a considerare l’atto del suicidio. La scrittura è l’unico modo che ha di togliersi di dosso i tormenti per non togliersi la vita. Scrive a mano, solo dopo si mette alla macchina da scrivere. Ne viene fuori il racconto I sicari che diventa l’ambasciatore del suo stile. Privo di descrizioni di luoghi, di ritratti dei personaggi: è il dialogo più che l’azione a tessere la trama. Proprio quei dialoghi che invece Scott Fitzgerald trova poco credibili in Fiesta. Ci sono molte scene superflue: gliene indica una per una come un bravo editor e suggerisce a Ernest di ascoltare di più le donne. Proprio a lui che nella vita alla fine ne avrà 4 per contratto matrimoniale, tra le tante.
Un bilancio coniugale ricco di entrate e uscite nella sua vita sentimentale, ma che incide non poco sul bilancio delle sue finanze. Lo alimenta il successo commerciale del racconto Il vecchio e il mare, lo dissanguano gli alimenti che deve pagare alle ex-mogli. Per lui sono «soldi insanguinati» che gli vengono prelevati con la siringa dell’inganno. Pauline Pfeiffer può vivere con il patrimonio di famiglia: la richiesta degli alimenti è fatta solo per danneggiarlo. E per impedirgli di scrivere.
Eppure, Ernest sembra avere una solida resistenza al salasso finanziario come all’alcol della bottiglia di Gin Gordon’s. In 25 anni di alcolismo ne apre una al giorno. Come un vecchio affoga le sue paure e le sue paranoie nel bicchiere sempre pieno per poi riemergere sulla superficie di un mare di parole sempre più premiate. Nel giro di 1 anno vince il Premio Pulitzer e il Premio Nobel. Sono riconoscimenti che restituiscono al suo bilancio le risorse finanziarie sottratte dagli obblighi coniugali e delle tasse federali. E ripagano la sua bilancia del peso delle frustrazioni che accetta come condanna per imparare a scrivere meglio di chiunque altro.
È il 1954. Nonostante i riconoscimenti Ernest inizia a non riconoscersi più. Ha incubi costanti, e la paura diventa la sua compagna di vita. La paura del governo, dell’Fbi, la paura dei media, del fisico che lo abbandona, la paura di diventare un altro. Così, il lato depressivo in Ernest è sempre più cartesianamente congiunto al lato autolesivo di Ernest. Tra quei due assi si sviluppa la parabola discendente della sua funzione di scrittore. La mattina del 2 luglio 1961 Ernest decide di suonare la campana solo per sé. L’ultimo atto sul piatto della bilancia di Hemingway.
Andrea Ingrosso
Copywriter – Autore di scrittura per le aziende.
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