È contro la legge della letteratura credere che scrivere sia vivere. La scrittura ha bisogno di affrontare il limite. Di vederlo in faccia. Di esplorarlo in anteprima. Anche la parola ha un debole che solo la vita di fronte al suo limite sa riconoscere. Cedere a quella debolezza è la forza della parola scritta.
Perché se vivi un po’ più di quanto muori sulla pagina scritta, sei spacciato. E a nulla servirà spacciare la scrittura a convegno come pozione terapeutica somministrata a cucchiai zuccherati di ritrovata consapevolezza in sé stessi, di sviluppo della creatività umana, di valori universali, di vivere meglio di quanto si sia vissuto finora.
Un autore felice. È normale? Serve a qualcosa? È utile a qualcuno? Che se ne fa la società di un autore che si mette al centro della sua ritrovata felicità? Che ritorna a vivere grazie al valore lenitivo della scrittura? Almeno provasse a dissimulare un po’ il suo stato di grazia. A fare finta di essere un po’ triste. Così, tanto per ravvivare un po’ il bollettino medico. Ah, una scrittura che cura! È attendibile?
Sta’ lontano dalla malsana idea che la scrittura sia un centro benessere per uscire dalla periferia dei malesseri di oggi. O che sia un reparto di rianimazione per anime devitalizzate. Sta’ alla larga dalla malconcia idea che la scrittura sia il beverone energizzante da prendere quando l'umore non si alza dal letto. O il trattamento rigenerante che ti salva la pelle con la ayurvedica digitalizzazione sulla sua superficie.
Il narratore è un autore che ha vita da vendere, non da salvare. Per lui la scrittura è una simbiosi tra il vivere altrui e il suo morire. Per lui scrivere è lasciarsi andare alla deriva, non un’ancora di salvezza. E anche se è sempre più difficile morire sulla pagina per fare vivere una storia vera o inventata, dare la vita per la parola scritta rimane ancora il gesto più grande.
Alla fine, morire un po’ tra le righe è stare sempre al fianco del lettore e ogni volta in un modo sempre diverso. Perché quando tutto è perduto l’anima fa un passo avanti. E in quel passo l’autore lascia sul foglio un po’ della propria per cederla alle parole. Così, scrivere è cedere in vita in po’ della propria vita, e ogni volta morire un po’ per volta. Un morire a lieto fine.
Alla fine, senza le linee che delimitano il campo John McEnroe non sarebbe diventato il tennista più creativo di tutti i tempi. E in fondo, senza le restrizioni che durante la scrittura dovrebbe imporsi, un autore non sarebbe la persona più creativa in questi tempi sempre più digitali.
Perché è la scrittura con le parole a numero chiuso che mette alla prova la creatività di chi scrive. La vacuità della scrittura prodotta è proporzionale al numero di parole che conosciamo. Meno parole conosci più la tua immaginazione troverà spazio per inventare nuove combinazioni di frasi. Metti le parole nei posti che i linguaggi riservano a loro e avrai il cimitero quotidiano della Parola. Una parola che puoi prevedere è una parola che puoi seppellire.
Quando alla fine avrai seppellito tutte le parole morte che i linguaggi fanno nascere nel campo santo ti rimane a disposizione un campo ristretto di parole. Sono parole vive, le parole della lingua, dove il lettore trova sempre campo per connettersi. Accetta la sfida di quel campo sacrosanto per mettere insieme parole e dare segnali di vitalità alla tua scrittura.
L’importante è che siano parole dove la cosa e il nome siano intercambiabili. Una simbiosi quasi materna. La cosa mela entra nel nome mela e il nome mela entra nella cosa mela. Perché quando leggi la parola mela vedi subito una mela davanti ai tuoi occhi. E quando vedi la cosa mela senti il suono della parola mela arrangiato da 2 vocali e 2 consonanti: m-e-l-a.
Eppure, un giorno la Scrittura, riunita a Milano – nel bene e nel male – per un convegno nazionale, rimane senza mela. E quindi senza Morte. Una tregua interrompe la battaglia che per natura ogni giorno la parola scritta ingaggia contro il Limite. «Scrivere è vivere» proclamano al convegno. «Con la scrittura non si muore più».
Apriti Cielo! C’è poco da stare allegri se quella porta si chiude. Se nel momento dello scrivere, morire lascia il posto a vivere. Che cosa accadrebbe alla Metamorfosi, al Delitto e al Castigo, alla Guerra e alla Pace? Che cosa succederebbe all’orgoglio e al pregiudizio, al giovane Holden, al vecchio e al mare? Lolita, Moby Dick, il piccolo principe, il grande Gatsby, Montalbano potrebbero avere vissuto nella nostra immaginazione se un po’ del morire dei loro autori fosse stato spodestato da una manciata di vivere? Che cosa si consumerebbe ora in quelle pagine scritte da autori che sulla superficie di carta avevano invece lasciato un po’ della loro vita?
«Saremo più consapevoli di noi stessi e del mondo» rassicurano i relatori dal palco del convegno. «Apriremo una via di nuova professionalità. Indagheremo noi stessi e comprenderemo la nostra profondità» predicono con il microfono appeso all’orecchio. «Sprigioneremo creatività umana, coglieremo i valori universali, vivremo meglio».
Per fortuna, il giorno dopo il convegno sulla scrittura, la Morte ritorna in sé per tornare tra di noi. E riprende in mano le sorti del suo mestiere: fare morire. Così, gli autori tornano alle loro fatiche letterarie: morire un po’ tra le righe e ogni volta in un modo sempre diverso. A volte in modo saggio, altre volte in modo romanzato, altre volte ancora in modo poetico.
Perché è contro la legge della Letteratura interrompere qualcosa che vuole invece vivere. Ogni volta che scrive l’autore le dà un volto, un corpo, una voce, un gusto, un’età, dei pensieri, dei sentimenti, dei desideri. Una vita, insomma. In quel suo morire un po’ per volta. Un morire a lieto fine.
Andrea Ingrosso
Copywriter – Autore di scrittura per le aziende.
© 2022 Mamy